Kzohh – Trilogy: Burn Out The Remains

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Terzo parto malefico per gli ucraini Kzohh e capitolo conclusivo della trilogia dedicata alle più devastanti pestilenze che hanno colpito il genere umano nel corso della storia, iniziata con il debutto “IAOLTDOTAD” del 2014 e proseguita con il successivo “Rye.Fleas.Chrismon” del 2015. Questo “Trilogy: Burn Out The Remains” è composto da tre lunghi brani che si muovono lenti e pestilenziali (è proprio il caso di dirlo) negli angusti territori di un black/doom metal fangoso e mefitico, dal sapore malignamente rituale. Ognuno di essi tratta, come detto, di una disastrosa pandemia e rispettivamente: “Panouka DXLII” della peste che si diffuse nel 542 durante il regno di Giustiniano (il primo caso di peste della storia documentato), spazzando via quasi la metà della popolazione di Costantinopoli; “Crom Conaill” di un’altra terribile epidemia di peste (è il nome in irlandese antico della malattia); l’ultima “H19N18” dell’influenza spagnola, che nel 1918-1919 infettò oltre 500 milioni di persone (quasi il 30% della popolazione mondiale), uccidendone a conti fatti più della Grande Guerra. Questo allegro sostrato lirico e concettuale (e c’è da giurare che i nostri facciano il tifo per i germi) è reso attraverso ritmi lugubri, stacchi funerei e vocals raschianti e colme di sofferenza, per la gioia di quanti amano i tempi dilatati e le atmosfere sulfuree: sembra quasi di ascoltare una versione più black ed estremamente minimalista degli Esoteric, per quanto il paragone possa sembrare strano, perché sono comunque presenti (ma in minima parte) segmenti più tradizionali, nei quali le chitarre si producono nel più classico suono tremolante e ronzante, a spezzare per un momento l’altrimenti ininterrotta litania di morte. La musica del quintetto esteuropeo – il cui nome è dato dalle iniziali degli pseudonimi dei suoi membri – resta però essenzialmente lenta e pachidermica; procede senza fretta tra nebbiosi anfratti, come un untore che diffonda di nascosto il morbo letale; e proprio in questo risiede il suo maggior fascino, sempre che l’ascoltatore non sia alla ricerca di particolari novità od originali esperimenti. La produzione abbastanza limpida (prendete questa definizione con le dovute cautele) e comunque tutt’altro che artigianale completa il quadro di un’opera che piacerà a quanti avranno la volontà di approcciarvisi nel giusto stato d’animo e con la necessaria pazienza (si tratta di un disco tortuoso ed affatto easy listening, come del resto i suoi predecessori di cui perpetua il trademark stilistico): per il sottoscritto una piacevole sorpresa.