Stoic Dissention – Autochthon

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Seconda fatica in studio per gli statunitensi Stoic Dissention, “Autochthon” esce in edizione limitata a trecento copie per la semisconosciuta etichetta canadese Rain Without End Records, e segue a due anni di distanza il precedente “Relinquished (A Crumbling Monument Witnessed By None)”, pubblicato appunto nel 2012, ed il debutto “Senium”, ep del 2011. La band del Colorado, che finora si è tenuta ben lontana dai riflettori e fedele ai dettami dell’attitudine underground, sorprende e colpisce nel segno con un album pachidermico di malsano black/doom metal; un vero monumento nero dove luce e speranza non trovano posto. I ritmi ultra-rallentati e fangosi fanno scivolare spesso e volentieri le composizioni verso i lidi di un funeral granitico e monolitico, davvero raggelante e difficile da digerire per chi non è avvezzo a tale genere di sonorità. L’aura mortifera che trasuda letteralmente da ogni singola nota si sposa bene con l’estetica black alla quale il gruppo intende aderire, anche se musicalmente siamo piuttosto lontani dagli stilemi tipici del genere, eccezion fatta per un cantato raschiato e gorgogliante, vicino allo screaming, che è però alternato a cori monastici profondi e lugubri (come ad esempio in “This Feral Temple”). L’opener “Wolcnum” è una mefitica cavalcata di oltre quindici minuti che mette immediatamente in chiaro le intenzioni del gruppo: squarci ambientali ed insinuanti melodie di chitarra reggono un pezzo dall’atmosfera estremamente sinistra, ulteriormente esaltata da sporadiche intrusioni acustiche. Siamo certamente non troppo lontani da realtà come Evoken, Tristitia e Nortt, delle quali i nostri recuperano la fondamentale lezione, calandola in strutture organiche e lussureggianti, che possono a tratti richiamare i primi Cathedral. L’anima nera dell’ensemble a stelle e strisce rivive a momenti, come nella conclusiva “The Eldritch And The Atavistic”, l’unica canzone nella quale fa la sua comparsa uno squarcio aggressivo, tuttavia immediatamente riassorbito dalle sabbie mobili di un sound paludoso e disperato. Siamo al cospetto di un lavoro molto curato e maturo, che mantiene alta la tensione emotiva anche nei passaggi più semplici e minimali: un disco che procede senza fretta, lento ma inesorabile messaggero di sventura. Ascoltatelo e sarete schiacciati sotto il suo peso insostenibile, come insostenibile è il male di vivere.