Che sopresona! Questo primo full length dei brasiliani Pombajira è stato davvero una rivelazione inaspettata ma anche l’ennesima conferma (se mai ce ne fosse stato bisogno) del fatto che, se il 99% di tutto ciò che viene fuori dall’underground metallico estremo negli ultimi anni è scopiazzatura mal fatta e priva di qualunque spunto personale, che al massimo si può ascoltare piacevolmente e nulla più, è nel restante 1% che si nascondono inattese piccole perle in grado di riconciliarti con un universo musicale che di norma ti costringe a galleggiare in un mare di mediocre inutilità. E questo disco appartiene sicuramente a questa ristretta cerchia. La band è di recente formazione ed è nata per volere del cantante e chitarrista HellSon Röcha, ex Grave Desecrator (già recensiti su queste pagine virtuali con il loro “Primordial And Repulsive”), coadiuvato per l’occasione dal chitarrista e bassista Blizzard e dal batterista T. Splatter, personaggio davvero molto attivo nella scena estrema brasiliana e coinvolto in diverse realtà sia black che di altro genere (tra le quali ci terrei a ricordare, quanto meno per il moniker carico di dolcezza, il progetto death/goregrind Furunculo Anal).
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Il nostro power trio prende il suo nome da uno spirito afro-brasiliano evocato dai praticanti di Umbanda e Quimbanda, sorta di religioni sincretiche ancora presenti in America Latina, che mescolano tradizione africana, cattolicesimo romano e antiche superstizioni indigene, in un insieme che può essere più europeizzato o più legato allo spiritismo locale, a seconda delle zone. Pombajira è la consorte di Exu, messaggero degli Orixas a Condamblé; è conosciuta con molti nomi o avatar ed è associata al numero sette, ai crocevia, ai cimiteri, alla possessione, alla stregoneria e alla sessualità femminile. Niente foreste innevate e mitologia norrena quindi ma un progetto che, anziché rifarsi ad un bagaglio culturale non di sua appartenenza (come fanno in troppi, specialmente a latitudini inconsuete), propone un concept coerente con la propria provenienza geografica, fatto di voodoo e di oscure pratiche magiche, che peraltro si sposa alla perfezione con la musica. I Pombajira infatti, qui direttamente al debutto sulla lunga distanza via Helldprod Records, dopo una demo pubblicata questo stesso anno, suonano una sorta di doom (con moltissime o, dooooooom) davvero sporco e massiccio, contaminato da influenze provenienti dal black della prima ondata, quella della seconda metà degli anni ottanta, pre-norvegese per intenderci, soprattutto per quanto riguarda la voce, e dal southern/sludge più fangoso e sudicio, che emerge in vari passaggi chitarristici come un tronco putrefatto in una palude umida e infestata.
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Ed è una vera goduria, perché il gruppo in realtà non fa nulla di nuovo in senso assoluto e si inserisce all’interno di una tradizione se vogliamo abbastanza consolidata ma riesce a combinare insieme in modo del tutto convincente elementi disparati, dando vita ad un risultato finale che supera di gran lunga la mera somma degli ingredienti utilizzati. “Pombajira” fila via che è un piacere, con i suoi ritmi talvolta estremamente rallentati e talaltra decisamente più cadenzati, con il suo ondivago andirivieni tra note spesse ed oscure, sulle quali aleggia lo spettro di Pentagram e Candlemass, e passaggi molto più heavy/black che potrebbero chiamare in causa i Venom o i nostrani Mortuary Drape. Il disco scorre come un continuum e ha nell’atmosfera viscida e mortifera il suo maggior punto di forza, tanto che giunti al termine di questa mezz’ora dovrete impiegare del tempo per ripulirvi completamente dalla sporcizia. La produzione è davvero perfetta per le sonorità proposte: è pastosa e appiccicosa come la melma e mette bene in evidenza soprattutto il pulsare grasso del basso e i giri impastati delle chitarre, senza però lasciare in secondo piano la voce e i battiti scanditi dalle pelli, perché ogni elemento concorre a dare corpo ad un sound ipnotico e circolare, con l’obiettivo di condurre l’incauto ascoltatore in una sorta di trance ritualistica ed estatica.
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Considerata anche la durata abbastanza breve dell’album avrebbe poco senso citare una canzone piuttosto che un’altra, anche perché siamo di fronte a un lavoro che riesce a dosare bene i cambi di tempo e ad alternare in modo efficace passaggi lenti e stacchi relativamente più veloci: tuttavia il cuore pulsante della tracklist è rappresentato da “The Lost Exit Of Darkness”, non a caso posta a metà ed incastonata tra due episodi più heavy e potenti come “Vital Lucifer” e “Queen Of The Night”, che con le sue schitarrate plumbee e le sue cupissime melodie, incarna in maniera egregia l’anima autenticamente doom (anzi dooooooom) del disco. “Pombajira” è avvolgente come le sabbie mobili e caldo come il sangue di un pollo sgozzato come vittima sacrificale per qualche divinità infernale: oltre a vantare ottime canzoni è sostenuto da un’atmosfera orrorifica che lo rende sottilmente diabolico e inquientante. Ascoltandolo l’ho spesso associato a “Angel Heart”, pellicola di Alan Parker del 1987 con un ottimo Mickey Rourke, che tratta proprio di voodoo e altre simili diavolerie (se ancora non l’avete fatto, guardate immediatamente questo film). Personalmente ritengo sia il miglior disco metal underground di quest’anno, insieme a “Diário De Guerra” degli Holocausto, guarda caso anche loro brasiliani.