Qualche mese fa mi è passato per le mani un vecchio testo d’arte del mio periodo scolastico, nel quale erano riprodotti alcuni quadri dei più importanti pittori del ventesimo secolo. Sfogliandolo, mi sono soffermato su un artista che adoro, la cui unicità e originalità hanno dato vita a un movimento che ha annoverato grandissimi nomi: Wassilj Kandinskij. La ragione principale per cui amo le sue opere è che rappresentano al tempo stesso caos e ordine, chiaro e scuro, emozione e spiritualità. Appena ho ascoltato il nuovo lavoro dei Deafheaven mi sono tornate in mente quelle pagine che raffiguravano forme, linee e colori, tanti colori, gli stessi colori di cui è composto “Lonely People With Power”, un’opera d’arte sonora a tutti gli effetti, che non esito a definire un autentico capolavoro. La band californiana, che poco più di un decennio fa ha praticamente creato un nuovo genere, ora ha probabilmente scritto una pietra miliare del blackgaze. L’attesa era fervente, nonostante l’album precedente non fosse stato ben accolto a causa del repentino cambio di rotta verso un sound dark wave molto anni ottanta ma George Clarke e soci hanno smentito alla grande i rumors che si erano sollevati all’epoca, zittendo ogni critica con dodici tracce eclettiche che coinvolgono l’ascoltatore in un turbine emotivo di immagini soffuse e visioni estatiche. L’estetica musicale a cui hanno dato vita i Deafheaven ha raggiunto qui un livello di piena maturità, naturale evoluzione di quanto già proposto in lavori come “Sunbather” e “New Bermuda”.

L’introduzione dal mood puramente elettronico, suadente e malinconico non è che l’inizio di un percorso che esplora più strati di una realtà alternativa, dove il graffiante stile canoro di Clarke si contrappone alle chitarre eteree di Kerry McCoy e Shiv Mehra, creando una tela ricca di sfumature compositive ed esecutive. La variabilità all’interno di ogni traccia è altissima ed è meraviglioso scoprire, ogni volta che si riascolta un brano, piccole parti o arrangiamenti che erano sfuggiti nei precedenti passaggi. Ciò presumibilmente conferisce longevità al disco e mi ricorda, per certi versi, le produzioni dei The Mars Volta, non a livello musicale ma squisitamente concettuale: il fatto di articolare i singoli momenti all’interno di un pezzo porta l’ascoltatore a cercare con attenzione nuovi particolari (a questo proposito consiglio caldamente l’ascolto in cuffia). Proprio come un dipinto di Kandinskij ma senza la connotazione astratta.

Ho molto apprezzato lo stile di scrittura, che rende estremamente variegati e mai banali brani di discreta lunghezza, caratterizzati da un equilibrio che non risulta mai forzato o stonato: si spazia infatti da sezioni di connotazione “british indie” a parti decisamente tirate di stampo puramente black metal, con grezzi sintetizzatori che introducono riff taglienti e violenti, blast beat e pedalate furiose che travolgono come un fiume in piena. Personalmente non ho trovato alcun punto debole, anche la qualità sonora e la produzione sono da cinque stelle. Soltanto, visto che ho la fissazione per la musica elettronica, l’avrei resa un po’ più presente, non solo nelle tracce di intermezzo come i tre capitoli di “Incidental”, ma anche nel corpo di qualche canzone: un piccolo appunto che è solo, come si suol dire, questione di gusti. Potrei consumare altro inchiostro virtuale per elogiare “Lonely People With Power” ma preferisco lasciare a voi, amici lettori, il piacere di scoprire ogni tassello di questa caleidoscopica colonna sonora. Esatto, proprio così: una colonna sonora che potrebbe essere adatta per i momenti bui come per quelli felici.