Sono in preda ad un attacco nostalgico di prim’ordine, cari amici lettori, e gli “anziani” come me capiranno sicuramente di cosa sto parlando. Perché i Lacabra mi hanno fatto riassaporare quel gusto death anni novanta, quel sapore di metallo arrugginito che le mie “papille” uditive non gustavano da lungo tempo. Partorito dalla precedente band Loicisteller e risorto dalle ceneri della pandemia, il quintetto di Seattle si presenta con un album di debutto self titled assolutamente di alta qualità. Come anticipato nelle righe precedenti, questo full lenght di nove tracce è un concentrato di death metal vagamente blackened di stampo tecnico, mescolato con arrangiamenti melodici e dal sapore dark wave. Lo stile compositivo è quello classico, di stampo USA, con riffoni in stile thrash californiano sviluppati in maniera decisamente progressiva, che in certe parti mi hanno ricordato, a livello puramente concettuale, addirittura i Dream Theatre, specialmente nei bridge che collegano le varie parti delle tracce.

Proprio questa maturità nel songwriting è il punto di forza che dà compattezza e tiro a tutto il disco. Un disco che non stanca dall’inizio alla fine, anzi risulta estremamente coinvolgente, e il cui unico punto debole sembra essere “Nothing”, riempitivo messo un po’ lì che, onestamente, non avrei incluso in album del genere. Al netto di questo piccolo passo falso, il resto del lavoro scorre che è un piacere, grazie anche alle indubbie capacità compositive ed esecutive dei musicisti coinvolti nel progetto. Tecnica a profusione e virtuosismi chitarristici si prendono la scena in ogni traccia, tanto che in alcune sezioni sembra quasi di ascoltare i Necrophagist.

Michael Anthony ed Eric Snyder, i due chitarristi, si palleggiano assoloni da spavento, perfettamente inseriti nel contesto compositivo e mai noiosi. La sezione ritmica è semplicemente equiparabile ad uno schiacciasassi, precisa, puntuale, devastante, la sua essenzialità è il suo pregio. La linea vocale, che in questo genere dovrebbe tendere ad essere protagonista, invece non è esente da critiche in quanto manca di potenza e resta troppo nascosta dietro le chitarre. Mi spiego meglio: una linea canora più presente, anche solo leggermente “portata avanti”, come si usa dire, in fase di mixaggio, sarebbe stata la classica ciliegina sulla torta. Questo pregiudica a mio parere la resa finale perché la tensione tende a calare durante le parti cantate, che in definitiva sembrano mancare di verve, interpretazione e mordente. Per intenderci, una “voce alla Phil Anselmo” sarebbe stata decisamente più incisiva.

Concludendo il mio consueto sproloquio posso scrivere, con concreta consapevolezza, che Lacabra è comunque un bel disco, qualitativamente di livello a parte le pecche in sede di registrazione. Sicuramente la band non ha creato niente di nuovo e dischi di questo genere ce ne sono a bizzeffe ma il lavoro ha quel gusto retrò che non può non coinvolgere gli ascoltatori che con queste sonorità, seppure distanti dal black metal in senso stretto, ci sono praticamente cresciuti: i più attenti potranno infatti cogliere le influenze di almeno cinque o sei band metal mainstream di venti, trent’anni fa; l’epoca d’oro, o forse semplicemente l’epoca in cui eravamo ragazzi e avevamo le orecchie e il cuore sgombri.